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IL PUNTO

I contributi firmati non rispecchiano necessariamente l'intero gruppo redazionale

Difendere i contratti collettivi nazionali di lavoro ed il diritto di sciopero.
Respingere l’attacco ai lavoratori portato avanti con l’uso strumentale della crisi.

Due avvenimenti, apparentemente separati, hanno recentemente investito il sistema su cui si basano le relazioni sindacali in Italia.  Il primo è costituito dall’accordo siglato lo scorso 22 gennaio tra il Governo, le associazioni imprenditoriali, i sindacati Cisl, Uil, Ugl, sulla riforma della contrattazione; il secondo è costituito dall’approvazione del decreto legislativo, da parte del Consiglio dei Ministri, sulla “regolamentazione e prevenzione dei conflitti collettivi di lavoro con riferimento alla libera circolazione delle persone”, ovvero su una ulteriore restrizione del diritto di sciopero nel settore dei trasporti.
Il tutto, è bene sottolinearlo, sullo sfondo di una crisi economica di cui i padroni si servono, e si serviranno, per attaccare le condizioni di vita dei lavoratori e per  cercare di fiaccarne definitivamente ogni volontà e possibilità di resistenza.
Una crisi, quella che ha investito l’economia internazionale, che è probabilmente la peggiore dalla fine del secondo conflitto mondiale e di cui ancora non si vedono tutti i contorni, gli effetti, la durata. Quello che è certo è che la stanno pagando principalmente i lavoratori, e gli strati sociali più deboli, con un aumento accelerato della disoccupazione e del taglio ai salari che vanno a vanificare le conquiste fatte in anni di lotte e di battaglie sindacali.
In questa situazione economica e sociale qualsiasi organizzazione sindacale, pur moderata e concertativa, dovrebbe basare la proprie rivendicazioni sulla difesa dei salari e delle condizioni di vita dei lavoratori.
L’accordo sulla riforma della contrattazione siglato da Cisl, Uil, Ugl, con il Governo e le associazioni imprenditoriali, va invece in direzione opposta ed accentua se possibile i danni prodotti dal precedente protocollo del luglio 1993 (siglato allora anche dalla Cgil), che attraverso una politica di moderazione salariale al di sotto dell’inflazione reale ha agevolato un grande trasferimento di ricchezza dai lavoratori alla borghesia.
Il nuovo accordo sulla contrattazione, che accantona la già debole e criticabile piattaforma sindacale unitaria con cui era stata affrontata questa trattativa, vincola gli aumenti salariali ad un indice previsionale che non tiene conto dei costi derivati dall’energia importata, con la possibilità di un eventuale adeguamento –sempre al netto dei costi energetici- nel caso di un “significativo” scostamento dalle previsioni, portando inoltre la durata dei contratti da quattro a tre anni ed allineando a questa scadenza anche la contrattazione economica oggi biennale. Si prevede poi la riduzione del “valore punto”, laddove previsto, preso a riferimento per la rivalutazione, e comunque la diminuzione del valore economico di riferimento per determinare l’incidenza dell’inflazione.
Non solo, ma introducendo la pericolosa clausola che renderà possibile alla contrattazione territoriale o aziendale di modificare in peggio i contratti collettivi nazionali di lavoro, si pongono le basi certe per un loro sgretolamento; è il segnale, che i padroni attendevano da decenni, per il ritorno ad una sorta di vecchie gabbie salariali che dividevano contrattualmente l’Italia prima del 1968, per la parcellizzazione della contrattazione, per lo sfondamento dei C.C.N.L. e per ridisegnare ulteriormente i rapporti di forza all’interno delle aziende. 
Il tutto in cambio di una contrattazione di secondo livello che non viene affatto allargata oltre la minoranza dei lavoratori già interessati e che, nella situazione attuale, assume aspetti incerti anche nelle aziende più forti; ma, a ben vedere, in cambio c’è pure la possibilità di una proliferazione di enti bilaterali che interessa molto gli apparati sindacali perché in grado di portare risorse economiche al di là della reale rappresentatività e presenza organizzata nelle aziende.
In ultimo l’intesa separata prevede che vi sia una “tregua sindacale” prima e durante lo  svolgimento dei negoziati sui rinnovi contrattuali, ed inoltre che nella contrattazione di secondo livello in alcuni comparti del pubblico impiego siano solo le organizzazioni sindacali rappresentative della maggioranza dei lavoratori a poter indire uno sciopero. Questo, tra l’altro, ha dato il via libera al Governo per varare la nuova legge che limita proprio il diritto di sciopero.

La Cgil, come è noto, non ha firmato questo accordo. Questa decisione è maturata in parte per la spinta del composito e trasversale schieramento che vi si opponeva (la maggioranza di importanti categorie come la Fiom e la Funzione Pubblica, così come l’area programmatica di “Lavoro Società” e quella della “Rete 28 aprile”), oltre che per il perdurare in questa organizzazione di tratti sindacali diversi rispetto a quelli di Cisl ed Uil. Tratti sindacali che si sono formati nella lunga storia della Cgil e che, pur non smentendo la sua attuale collocazione moderata e concertativa, riescono ancora ad attivare, a seconda delle circostanze, una capacità di opposizione forse sottovalutata. Il tutto in maniera contradittoria dimostrata, come già era avvenuto nel biennio 2002/03, dallo scarto politico tra gli alti obiettivi della mobilitazione confederale e le dubbie contrattazioni che contemporaneamente avvengono in alcune categorie, e mentre nell’organizzazione si notano episodi di resistenza, per ora passiva, di quella parte di funzionari che vorrebbe tornare quanto prima alla situazione precedente.
Una critica che molti compagni rivolgono alle attuali posizioni della Cgil è che queste non costituiscono una svolta rispetto al passato, ma rappresentano solo una momentanea fase di opposizione, magari favorita da motivi politici. Crediamo che in ciò ci sia del vero ma, nello stesso tempo, che questa sia una visione riduttiva della situazione; in ogni caso poco cambia rispetto alla questione che più ci sta a cuore e che è costituita dalla possibilità, con la Cgil,  di mettere in moto grandi masse di lavoratori, di attivare delle lotte e di far crescere una opposizione a questo sistema che riesce a rigenerarsi ma che continuamente distrugge forze produttive, semina morte e distruzione, devasta l’ambiente. Crediamo che questo aspetto positivo dovrebbe interessare tutti i compagni, in qualsiasi organizzazione sindacale siano presenti.

Ma veniamo al secondo avvenimento, costituito dal Disegno di Legge del Governo, di una ulteriore regolamentazione del diritto di sciopero nei trasporti.
Il provvedimento, presentato demagogicamente per difendere il diritto alla mobilità delle persone, è  strettamente connesso con l’accordo separato sulla contrattazione che già introduce clausole restrittive nei servizi pubblici e che ha dato il via libera all’azione governativa.
Le nuove norme prevederebbero che la proclamazione di uno sciopero possa essere effettuata solo dalle organizzazioni sindacali complessivamente dotate, nel settore, di un grado di rappresentatività superiore al 50 per cento. Per le organizzazioni sindacali che non superano questa soglia sarebbe previsto,  a condizione che  abbiano un grado di rappresentatività superiore al 20 per cento, il referendum preventivo obbligatorio tra i lavoratori interessati allo sciopero. In quest’ultimo caso la legittimità dello sciopero sarebbe condizionata dal voto favorevole del 30 per cento dei lavoratori interessati.
Un meccanismo astruso, difficilmente attivabile e controllabile, che allungherebbe a dismisura i tempi della risposta conflittuale dei lavoratori mentre già oggi le aziende hanno mano libera contro i loro dipendenti. Il tutto, è bene sottolinearlo, sommato ai vari regolamenti categoriali che con mille cavilli già oggi rendono la proclamazione di uno sciopero nei trasporti un’ardua e lunga impresa.
E’ prevista inoltre la dichiarazione preventiva di adesione allo sciopero da parte del singolo lavoratore, e l’istituzione dello sciopero virtuale per quelle categorie professionali che in caso di astensione “possano determinare la concreta impossibilità di erogare il servizio”; quali siano queste categorie è ancora tutto da stabilire.
Ma il disegno di legge va oltre i lavoratori dei trasporti, per i quali sono previste pesanti sanzioni individuali, estendendosi anche alle “forme di protesta o astensione dal lavoro in qualunque attività o settore produttivo che , per la durata o le modalità di attuazione, possono essere lesive del diritto alla mobilità e alla libertà di circolazione”; una formulazione generica, che può essere allargata ad una grande varietà di situazioni, da cui traspare comunque l’intenzione di colpire e di reprimere ben oltre le lotte nel settore dei trasporti.

La Cgil ha respinto questo provvedimento, anche se solo in maniera verbale, mentre la Cisl e la Uil si sono adeguate giudicandone il testo “equilibrato”.
E’ evidente invece la volontà del Governo di inserire meccanismi che vadano a comprimere il conflitto, tanto più in una situazione sociale che potrebbe diventare sempre meno controllabile; e questo è solo l’inizio perché, nessuno si faccia illusioni, ci sarà il tentativo di ulteriori restrizioni nel diritto di sciopero in altri settori.
Il provvedimento governativo va a colpire ogni lotta proveniente direttamente dai lavoratori e quelle dei sindacati di base che non potranno, in molti casi, effettuare il referendum neppure unendo le loro forze.
Ma l’obiettivo, nella situazione attuale, è anche quello di colpire la stessa Cgil,  vista la soglia di rappresentatività del 50 per cento difficilmente raggiungibile in un intero settore, limitandone la possibilità di azione e cercando di obbligarla a trovare accordi con le altre confederazioni.
In questo caso, se il problema riguardasse solo i vertici sindacali e non invece tutti i lavoratori, verrebbe proprio da dire che “chi  la fa l’aspetti”.  Non sono poi così lontani i tempi, subito prima della battaglia sull’articolo 18 nel 2002, in cui Sergio Cofferati lanciava la proposta del referendum preventivo per gli scioperi nel settore dei trasporti, o quando alla fine degli anni novanta i sindacati di categoria di Cgil, Cisl, Uil, siglavano accordi per introdurre in ferrovia delle regole capestro nell’effettuazione delle lotte.
E viene da riflettere, andando ancora più indietro nel tempo, sui limiti politici di una dirigenza sindacale che con arroganza pensava di poter decidere e regolare tutto, mentre altri mettevano  chiaramente in guardia dai fallimentari sviluppi della strada intrapresa.
Proprio sul primo numero di “Comunismo Libertario”, nel lontano febbraio 1987,  compariva  un articolo sui codici di autoregolamentazione siglati nei trasporti ed in settori dello stato e del parastato. L’articolo, dal significativo titolo “Autoregolamentazione un patto con … il padrone”, dopo una analisi degli accordi e delle posizioni dei vari partiti e sindacati, si concludeva con l’affermazione che “è la scelta dell’autoregolamentazione che apre oggi la strada alla regolamentazione per legge del diritto di sciopero e (…) stabilire una volta per tutte le modalità di lotta significa costringere la conflittualità in canali rigidi, spianando la strada all’intervento repressivo dello stato ogni qual volta l’asprezza dello scontro di classe suggerirebbe modalità e ampiezza di lotte precluse dai codici”.
Così adesso, dopo le leggi 146/90 e 83/2000 ed i vari accordi applicativi nei settori, siamo arrivati a cercare di strozzare il diritto di sciopero e la possibilità di lotta dei lavoratori, cominciando da quelli dei trasporti, passando attraverso le proteste sociali, per finire poi a tutto il mondo del lavoro.
Queste leggi, a suo tempo varate dal Parlamento nel tentativo di mettere un freno burocratico e normativo alle lotte, e condivise dalla stessa Cgil, oggi si ritorcono contro questa organizzazione sindacale. E’ accaduto recentemente, in Toscana, quando lo sciopero regionale proclamato dalla Cgil contro l’accordo separato è stato giudicato dalla Commissione di Garanzia non in regola con i tempi della “rarefazione” che prevede un intervallo di dieci giorni tra due scioperi; a distanza di due giorni era infatti in calendario uno sciopero nazionale per la riassunzione di Dante De Angelis, il macchinista RLS licenziato per avere denunciato problemi di sicurezza, sciopero a sua volta precettato dal Ministro dei Trasporti che così ha preso, come si dice, due piccioni con una fava!
Constatare che avevamo ragione non risolve i problemi anche se ci conferma che dobbiamo sempre sostenere con coraggio le nostre posizioni, pure se in minoranza.
Constatare quello che sta avvenendo ci deve portare, oggi ancora di più, a stare in mezzo ai lavoratori, ai precari, ai pensionati, a quanti soffrono di questa situazione sociale e sono disposti a lottare contro di essa: starci per stimolare le lotte e la mobilitazione dei lavoratori, starci senza divisioni fittizie o di sigla, per l’unità di classe.

31 marzo 2009                                                                       Mario Salvadori