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STRATEGIA DI FONDO

Lo Stato

 

Introduzione

 

Crisi dello Stato sociale e consociazione

E' contraddittorio che di fronte alla crisi dello stato sociale, noi comunisti anarchici finiamo nella nostra azione sindacale e politica tra i pochi sostenitori dell'intervento dello Stato? Non è paradossale che proprio noi finiamo per sostenere la necessità dell'estensione dell'intervento dello Stato, quando una delle caratteristiche di fondo della nostra ideologia politica è quella dell'estinzione dello Stato?

Crisi dello Stato sociale e delle economie di piano

Come tutti sanno lo stato sociale nasce per iniziativa del keynesismo e, fatto proprio dalla forze socialdemocratiche, diviene uno dei cardini dello sviluppo della società retta da sistemi di capitalismo avanzato. Esso permette di assorbire i conflitti sociali ed anzi di finalizzarli ad una crescita più equilibrata dell'accumulazione, di reinvestire i salari in modo tale da garantire una crescita costante dell'economia, garantendo al tempo stesso migliori condizioni di vita ai cittadini. Lo stato sociale non elimina la povertà e la disuguaglianza nella distribuzione delle risorse, ma certamente rende meno drammatico il conflitto tra miseria e ricchezza, avrebbe dovuto garantire la possibilità di erogare a tutti alcuni servizi cosiddetti essenziali quali l'assistenza sanitaria, l'istruzione, il diritto alla casa, ad un salario minimo, a condizioni di vita complessivamente accettabili.

A questa concezione del ruolo dello Stato i paesi del cosiddetto "socialismo reale" hanno opposto lo Stato-piano che attraverso la pianificazione delle risorse e della produzione avrebbe dovuto attuare un'equa distribuzione dei beni. Questo schema di funzionamento dello Stato non va esente, come quello dello Stato sociale, da manchevolezze, soffre di burocratismo l'uno e di prevaricazione, disonestà ed affarismo l'altro al punto che le ragioni di critica dei due sistemi spesso si intrecciano.

La fase di espansione lunga attraversata dall'economia mondiale ha messo in crisi ambedue i sistemi di gestione sociale. Da qui la crisi dei sistemi di "democrazia popolare" come quella dei sistemi di stato sociale con il neoliberismo. Nella nuova situazione va mutando all'est come all'ovest il ruolo dello Stato e trovano spazio sistemi di gestione dell'accumulazione caratterizzati dalla deregulation e dalla massimizzazione dei profitti da perseguire attraverso il cedimento degli stati nazionali di fronte alle multinazionali ed alla progressiva concentrazione economica e finanziaria che ha raggiunto ormai dimensioni planetarie. Il necessario corollario di questa strategia del capitale è l'impoverimento progressivo ed inarrestabile del quarto mondo, il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro degli stessi abitanti dei paesi ricchi, la scomparsa della sicurezza sociale e l'imbarbarimento dei rapporti intersoggettivi con la spinta sempre maggiore all'individualismo e al soddisfacimento concorrenziale rispetto agli altri dei propri bisogni. E' insomma quel fenomeno che comunemente chiamiamo logica della privatizzazione.

Le scelte consociative

Una delle forme di difesa parziale da questo processo di trasformazione adottata dai gruppi più forti è costituita dalla realizzazione di aggregati sociali per segmenti sociali. Si tratta di insiemi di individui accomunati da forti motivi di identificazione - collocazione sociale, censo, religione, razza, ecc. - che si muovono in difesa degli interessi collettivi comuni all'aggregato di cui fanno parte. Una società siffatta può trovare regole di convivenza e di equilibrata distribuzione delle risorse, ma non è certo quella che vogliamo.

Tuttavia la crisi della struttura dello stato sociale spinge alcuni di noi ad ipotizzare la creazione di strutture e di servizi auto-gestiti che rispecchino il nostro orientamento culturale e soddisfino i nostri bisogni. Se in passato - si ricordino l'esperienza della Colonia Cecilia o della Scuola Moderna di Ferrer - tali esperienze erano accettabili o come immature esperienze (è il caso del primo esempio) o come strumenti di lotta, oggi una tale ipotesi di lavoro è completamente riassorbibile anzi facilitata e alimentata perché perfettamente organica alla logica consociativa.

Le lotte per il potenziamento dei servizi pubblici

Come comunisti anarchici possiamo e dobbiamo lottare per la liquidazione dello Stato, ma ciò non significa battersi perché il costo e la responsabilità dell'erogazione di alcuni servizi non ricada sulla struttura sociale. Certo, per noi cambiano gli organismi sia politici che amministrativi di gestione -non proporremo mai le attuali USL - ma certo dovremo pensare ad un servizio sanitario che offra assistenza e aiuto a tutti i cittadini, i cui costi ricadono sulla collettività. Lo stesso dicasi per le scuole, per la nettezza urbana, la distribuzione dell'acqua, i servizi di trasporto che comunemente sono detti pubblici. Il problema allora non è quello della natura pubblica o privata di alcuni servizi, ma quella dell'organismo politico o degli organismi politici che gestiscono e gestiranno la società, della composizione degli organismi amministrativi , comunque necessari sotto il profilo tecnico e delle modalità dei controlli politici su di essi esercitati dalla collettività.
 

Premessa

Uno dei punti fondanti dell’anarchismo storico è senza dubbio l’antistatalismo. Senza voler arrivare agli eccessi di chi nega anche lo stato sociale per la presenza di quella terribile parolina e cade nelle braccia del più feroce liberismo, anche in noi troppo spesso la concezione della necessità di una società senza Stato porta a delle distorsioni, che traggono origine, a mio avviso, da una frettolosa assunzione del un bagaglio storico dell’anarchismo. Questo bagaglio necessita invece di una sua contestualizzazione e di un’analisi in profondità, nel momento in cui il capitalismo rampante propugna il dissolvimento dello Stato inteso come apparato burocratico amministrativo percettore di tributi ed erogatore di servizi.

 

La nascita dello Stato e quello che la precedeva

Un po’ di storia non fa mai male! Il moloch Stato nasce, nella sua configurazione moderna, oltre due secoli fa. Ciò in stretta coincidenza dell’emergere della classe borghese quale nuova classe dominante. Non è un caso che gran parte delle funzioni tipiche dello Stato moderno prendono forma nella Francia della rivoluzione del 1789. Ha senso chiedersi le ragioni profonde di questa trasformazione degli assetti di potere nella società, quali relazioni sociali cessavano di esistere per lasciare il posto ad altre, quali mutamenti tutto ciò comportasse nei rapporti di classe e, soprattutto, come si andava articolando il dominio della classe borghese emergente.

I rapporti sociali nell’organizzazione feudale

Quando alcuni anarchici denunciano, giustamente, i guasti che lo Stato come organizzazione borghese della società provoca tra le classi subordinate, astraggono con troppa superficialità dalla situazione che dette classi vivevano antecedentemente alla nascita della Stato liberale. L’assenza totale di regole permetteva ai detentori del potere qualsiasi arbitrio ai danni dei sottoposti: la lettura de I promessi sposi è, crediamo, esperienza comune a tutti. Ad una semplice riflessione appare evidente, in fin dei conti, che questa è poi l’essenza vera del potere assoluto.

I paesi poveri non solo erano molto poveri (lo sono tuttora), ma fornivano manodopera sotto la forma estrema della schiavitù.

Non esisteva neppure il concetto di diritto. Anticamente quest’ultimo riguardava solo i cittadini liberi della città-stato, ma nella degenerazione feudale si era ulteriormente ristretto ai soli appartenenti all’aristocrazia e all’alto clero. La grande maggioranza della popolazione viveva in una condizione di totale negazione della dignità umana.

Lo Stato liberale e il diritto

Liberté, fraternité, egalité, è il motto fondativo dello Stato liberale moderno. Inutile ripetersi, tra di noi, l’ipocrisia che esso nasconde. Quella che mi interessa è un’altra considerazione. Il passaggio da un’organizzazione sociale priva di regole (vigente solo quella del più forte) ad una che pretende di fondarsi su regole fondanti e al di sopra di qualsiasi individuo è tutt’altro che irrilevante. Il principio, se pure tendenzialmente sempre disatteso, c’è e sorte i suoi effetti, a dispetto dell’arroganza del potere.

Per fare un esempio, l’organizzazione operaia sarebbe inconcepibile nella società feudale; si badi bene, l’organizzazione operaia e non la rivolta. In effetti, prima della rivoluzione borghese erano possibili anche rivoluzioni sanguinose (ed anche vincenti), ma non era invece possibile la conquista graduale di porzioni crescenti di benessere. È evidente che queste conquiste sono parziali, spesso temporanee perché (come stiamo per l’appunto assistendo oggidì) riassorbibili e che l’unico passaggio che conta e quello rivoluzionario. Ciò non toglie due cose: da un lato, come diceva Malatesta, che la ginnastica delle lotte è ginnastica per la rivoluzione, tanto più necessaria per chi, come noi, crede ad una rivoluzione cosciente e consapevole, non riassorbibile dalle pretese di una nuova classe dominante in virtù del proprio sapere. E dall’altro il fatto che tutto ciò che oggi migliora la vita di qualcuno non è disprezzabile solo perché non è di per sé il comunismo libertario.

La società liberale nel coprirsi del velo del diritto, velo necessario alla propria lotta contro le vecchie classi dominanti, sancisce un principio che è progressivo, nei fatti e nei risultati, anche per le classi che restano subalterne.

La partecipazione progressiva

Il solidarismo kropotkiniano, sviluppatosi sul terreno naturalista ed etnografico, confuse l’armonia di necessità biologica delle api con quella discordia concors e quella concordia discors propria dell’aggregato sociale, ed ebbe troppe (sic!) presenti forme primitive di società-associazioni per capire l’ubi societas ibi jus, "dove c'e una società c'è un diritto", insito alle forme politiche che non siano preistoriche.

Questo spunto ci fornisce due utili basi di riflessione.

La prima è che non esiste società possibile in assenza di regole: si può e si deve discutere, e gli anarchici lo fanno, su come esse debbano essere formulate, su chi ricada la potestà di stabilirle, sulle modalità necessarie alla loro universale condivisione, etc. Nell'assenza di regole non c’è l’anarchia, ma la giungla, che sempre penalizza il più debole ed avvantaggia il più forte.

La seconda è che le regole "condivise" avranno una doppia valenza: vincolanti della libertà individuale da un lato, e di garanzia e di giustizia sociale di tutela di tutti dall’altro.

 

Lo Stato ottocentesco e la nascita della teoria anarchica

Punto di partenza della riflessione anarchica sul ruolo dello Stato prima durante e dopo la rivoluzione sociale è indubbiamente Bakunin. Occorre dire subito che ai fini della comprensione del ruolo dello Stato moderno e delle modalità del suo superamento l’impostazione bakuninista è di scarso aiuto, perché troppo legata ai bisogni della sua lotta contingente. Purtroppo talune affermazioni apodittiche del nostro, fuori dal proprio contesto e senza alcuno sforzo interpretativo, sono state assunte a principi adamantini e immarcescibili dell’Anarchia. Per uscire da una superficiale assunzione di parole d’ordine che finiscono per distorcere qualsiasi intrapresa politica è necessario puntualizzare alcune cose.

L’elaborazione di Bakunin si sviluppa nell’ultimo decennio della sua vita, nel bel mezzo del suo agire all’interno dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori e della polemica con la componente marxista; inoltre i riferimenti principali, legati strettamente allo sviluppo dell’azione rivoluzionaria del gruppo antiautoritario, sono l’Italia, la Spagna, la Russia e l’Austria, cui si deve aggiungere l’impero tedesco, sia per il suo ruolo nascente di prima potenza continentale europea, sia per il fatto che ivi stava il nucleo forte degli antagonisti socialdemocratici.

In questo quadro le preoccupazioni immediate di Bakunin sono tre:

  • stabilire definitivamente che la conquista dello Stato (per via elettorale) o la sua trasformazione tramite le riforme, non sono vie percorribili per arrivare alla società egualitaria e solidale;
  • dimostrare che laddove esiste una forma di potere esiste sempre una forma di sfruttamento e che quindi non esiste un’organizzazione sociale migliore di un’altra, se si esclude la società senza proprietà, senza classi e senza gerarchia;
  • infine, come logica conseguenza, che l’organizzazione statale non può e non deve sopravvivere alla Rivoluzione Sociale.

Questi punti restano incontestabilmente i tratti distintivi e fondanti di qualsiasi concezione anarchica.

Nell’urgenza di fissare le suddette coordinate, Bakunin, convinto dell’imminenza del sollevamento rivoluzionario delle masse grazie allo sviluppo irresistibile dell’Internazionale, non trova il tempo o gli spazi di riflessione necessari per un’analisi approfondita del ruolo che lo Stato veniva assumendo già da tre quarti di secolo, con un processo lento, contraddittorio, spesso di difficile individuazione, ma sicuro e per certi versi irreversibile. Per lui lo Stato è essenzialmente quello tedesco oppure l’autocratico zarismo russo. Tanto è vero che non considera neppure un vero Stato quello inglese, in quanto non corrisponde ai criteri che egli crede distintivi dello Stato moderno, e cioè: centralizzazione militare, poliziesca e burocratica. È evidente la distorsione che comporta, dal punto di vista teorico, lo scambiare le organizzazioni statali, o meglio sarebbe meglio dire centralizzate, residue del passato, con lo Stato moderno da individuare proprio nella Gran Bretagna e in quello Stato francese in forte trasformazione, anche se con il retaggio storico di una secolare centralizzazione.

Per la verità, il moloch Stato è entrato nella teoria anarchica, proprio a partire da questa concezione di centralizzazione militare, poliziesca e burocratica, fucina di tutta la deformazione futura e dell’incapacità di adeguare l’analisi. Ogni evoluzione dello Stato ha ricevuto l’interpretazione di un approfondimento di dette centralizzazioni, il che ha impedito di discernere le funzioni nuove, non sempre negative, e porta oggi molti anarchici allo sbandamento teorico di fronte alle forme di decentralizzazione e di apparente dissoluzione persino dell’apparato oppressivo.

Bakunin aveva avvertito anche che il non-Stato inglese (decentralizzato) non per questo era meno pericoloso, anche se la sua polemica, necessaria per l’urgere della rivoluzione che andava correttamente finalizzata e per spazzare via perniciose illusioni, tendeva ad assimilare forme diverse di dominio borghese, senza assaporarne le differenze anche ai fini delle condizioni di vita materiale delle masse; anzi a volte l’illusione democratica veniva considerata addirittura più negativa per lo sviluppo della coscienza rivoluzionaria del popolo.

Tuttavia non sempre Bakunin appare indifferente alle regole della società entro cui la lotta rivoluzionaria si trova a compiere il proprio sviluppo, a riprova di quanto sopra detto che questo aspetto è solamente restato non sviluppato nella sua riflessione.

 

L’evoluzione dello Stato

Per quanto già alla metà del secolo scorso l’evoluzione dell’organismo statale avesse già assunto proporzioni tali da essere rilevabili (ma esse sfuggirono non solo a Bakunin per i motivi suddetti, ma anche a Marx), i connotati che esso sarebbe venuto assumendo erano davvero difficilmente prevedibili. Due sono le considerazioni che interessa sviluppare: l’intreccio di competenze che esso è venuto assumendo e la valutazione della loro ricaduta nell’organizzazione sociale nel suo complesso, da un lato; dall’altro, se la tappa dello statalismo sia soltanto negativa nello svolgersi del progresso umano e se, di conseguenza, esso sia da considerarsi come una parentesi pervertitrice dell’originaria tendenza umana alla solidarietà reciproca. È evidente che la risposta a queste due domande è ben lungi dall’essere trascurabile per una valutazione sulle lotte dell’oggi, per quanto ben difficilmente può costituire, come vedremo, un mutamento di prospettiva per il raggiungimento di una società senza classi e, per ciò stesso, senza Stato.

Lo Stato imprenditore

Quando si parla dello Stato moderno si tendono a confondere tre funzioni che lo stesso apparato statale assolve, ma che sono tra di loro profondamente diverse e per nulla necessarie l’una all’altra: la regolazione dell’andamento del ciclo economico, l’intervento diretto nell’economia imprenditoriale ed il Welfare. Queste tre caratteristiche si sono tutte aggiunte nel corso di questo secolo, sovrapponendosi al tradizionale ruolo di gendarme degli interessi borghesi, ben noto ai rivoluzionari ottocenteschi.

I teorici dell’avvento della tecnoburocrazia hanno visto in questo moltiplicarsi di prerogative la conferma alle loro aspettative di totale inglobamento della società in quel mostro onnivoro che sarebbe lo Stato. In perfetta continuità con il determinismo kropotkiniano, per loro la storia è a senso unico e le vie dell’evoluzione sociale sono già segnate, per cui tendenze in atto tra gli anni trenta e settanta avrebbero mostrato in modo inequivocabile gli sbocchi futuri: la loro visione teleologica non è che l’altra faccia di quella marxista, sfuggendo ad entrambe la cognizione della funzionalità dell’organizzazione sociale agli interessi contingenti del capitale e di conseguenza la reversibilità di scelte che loro appaiono invece definitive. Non è perciò un caso che la disgregazione dell’apparato statale, cui si è cominciato ad assistere negli ultimi due decenni, li trovi teoricamente sbandati e balbettanti nelle proposte, se non decisamente e irrimediabilmente coerenti con le mosse che i vertici dell’economia mondiale vanno operando.

Il controllo del ciclo

L’impossibilità di prevenire crisi cicliche sempre più devastanti, dopo il fallimento delle teorie marginaliste volte ad interpretare scientificamente l’andamento dei mercati, indusse il capitale ad una drastica mutazione dei propri connotati. Nel corso degli anni cha vanno dall’inizio del quarto decennio alla fine del settimo, lo Stato da semplice gendarme degli interessi capitalistici (drenaggio fiscale, controllo poliziesco, politica doganale, ecc.), diviene motore dell’economia, assumendosi l’onere, per mezzo di un sostanzioso aumento della pressione tributaria; di riavviare con l’iniziativa di grandiose opere pubbliche il ciclo economico precipitante verso il baratro della crisi.

Conseguenza necessaria di questa nuova impostazione economica (il keynesianesimo) è stata la dilatazione del mercato, condizione indispensabile all’assorbimento di un quantitativo di merci sempre crescente, in dipendenza di un ciclo perennemente progressivo. I salari divengono il volano della congiuntura (fordismo) e crescono ma al di sotto della produttività, spinta dall’innovazione tecnologica nell’organizzazione del lavoro (taylorismo). Il tentativo è quello di ridurre la lotta di classe a continuo strumento di razionalizzazione del sistema.

È evidente che il capitalismo si inventa una nuova era per la propria prosperità, ma nel contempo masse crescenti di proletariato metropolitano dei paesi industrializzati ottengono l’accesso al consumo di beni che prima erano per loro irraggiungibili. La stagione delle lotte della fine degli anni sessanta ha chiarito che questa circostanza non si è tradotta in una definitiva integrazione delle classi subalterne alla logica dell’impresa; anzi, proprio dai settori più individuabili quali rappresentanti del cosiddetto operaio-massa è partita la contestazione di sistema e su di essi si è imperniata e mantenuta.

La gestione diretta del capitale

Un ulteriore passo avanti si è compiuto negli anni trenta dello scorso secolo. L’evoluzione avviene quasi naturalmente, ma non è necessaria; tanto è vero che essa non si presenta nel sistema capitalistico centrale: gli USA. Una lettura superficiale potrebbe assimilare quanto succede nei due mondi antagonisti dell’economia a pianificazione globale (area sovietica) e dell’economia a pianificazione di indirizzo (Europa capitalistica). Ma, come vedremo le due casistiche presentano caratteristiche che non le rendono assimilabili.

Il primo stimolo nasce quasi per caso nell’Italietta fascista: di fronte alla crisi di molti complessi industriali, il regime istituisce (1933) l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI), che rileva le aziende cosiddette decotte e dovrebbe reimmetterle sul mercato a risanamento avvenuto. Avviene, invece, che l’Istituto si trova dopo un po’ ad essere in possesso di porzioni notevoli di forze produttive industriali e che finisce per gestirle in proprio, dando vita al settore delle Partecipazioni Statali. L’IRI sopravvive al fascismo e nel secondo dopoguerra diviene un protagonista assoluto della vita economica nazionale. Il suo successo nello smussare le asperità del ciclo economico, grazie all’enorme disponibilità di capitale anche di fonte statale, ma non solo, è tale che i laburisti inglesi vengono negli anni ’50 a studiarne il funzionamento per riprodurlo in Gran Bretagna, imitati da francesi e tedeschi. Nasce così lo Stato che partecipa direttamente con propri capitali alla vita economica, lo Stato imprenditore.

Ben diverso è il caso dell’economia sovietica, dove la gestione statale dell’economia è globale e non si svolge in regime concorrenziale, rispondendo all’avvento al potere di una classe diversa dalla borghesia imprenditoriale: la piccola borghesia colta, con meccanismi propri di estrazione del plusprodotto. Ne discendono, non caso, due tipologie diverse di pianificazione economica, simili solo nel nome.

Non è possibile esimersi, a questo punto, da un veloce giudizio sul nuovo ruolo che lo Stato assume, in continuità, ma non in conseguenza col ruolo già esaminato di regolatore e stimolatore del ciclo economico. Chi ha vissuto le lotte sindacali degli anni sessanta e settanta ricorderà certamente che venivano allora firmati due contratti distinti per i lavoratori dipendenti delle aziende private e per quelli dipendenti dalle aziende a Partecipazione Statale: il secondo anticipava spesso il primo, facendogli da battistrada e costringendolo, per analogia, a concessioni che i padroni privati facevano mal volentieri. In epoca di liberismo galoppante le partecipazioni statali sono divenute sinonimo di spreco clientelare, e su tale onda emotiva smantellate, vendendo a privati il loro patrimonio strumentale. È stato così possibile che un azienda modello quale il Nuovo Pignone di Firenze, dopo essere stata acquistata in condizioni comatose dall’AGIP (dell’IRI), dopo essere stata riconvertita a nuovi tipi di produzioni, dopo aver sviluppato una tecnologia di avanguardia, dopo aver conquistato quote molto consistenti del mercato mondiale del settore ed essere divenuta fonte di profitti consistenti per lo Stato, è stata svenduta alla concorrenza statunitense della General Electric.

Che un ceto di dirigenti pubblici si sia arricchito nelle gestione delle aziende a partecipazione statale è indubbio, ma è anche indubbio che i salari e l’assetto normativo privilegiati dei lavoratori di queste aziende ha funzionato da punto di riferimento degli altri lavoratori spingendo in alto le richieste di tutti. Sorge quindi legittimo il dubbio che l’accanimento per la distruzione del settore delle partecipazioni statali nasca più dal bisogno da parte dell’imprenditoria privata di eliminare uno scomodo concorrente, di quanto non risponda ad una vago bisogno di moralizzazione dalle credenziali poco credibili.

D’altra parte l’eliminazione fisica di Enrico Mattei, presidente dell’AGIP e fautore di una politica di autonomo approvvigionamento del greggio che tagliasse fuori il cartello internazionale del petrolio (le Sette Sorelle), da parte proprio delle compagnie petrolifere è più che uno spunto per la meditazione.

Il Welfare

Lo Stato, nel corso del secolo uscente, ha via via assunto il ruolo di fornitore di servizi sociali (istruzione, sanità, previdenza, trasporti, ecc.). Il vantaggio per il padronato è evidente: si scarica sulla fiscalità generale (cui esso contribuisce in modo relativamente molto meno pesante del lavoro dipendente) la preparazione, il recupero, una timida forma di sicurezza, la mobilità della forza lavoro, ottenendone un più alta qualità della prestazione professionale e, negli auspici, una minore conflittualità sociale. Ciò non toglie che anche per i prestatori d’opera tutto questo non si traduca in un innegabile vantaggio, anche perché l’alternativa non è una minore pressione fiscale, cosa su cui sarà opportuno tornare, ma l’abbandono di forme di tutela della vita associata alla giungla del profitto, come stiamo vedendo con assoluta chiarezza.

Tanto è vero che un tempo il Welfare andava sotto il nome di salario sociale ed era riguardato dalle associazioni operaie come una forma di remunerazione del proprio lavoro. È da considerare poi che se l’istruzione pubblica veniva forzata verso l’acquisizione di un mestiere, da altro punto di vista costituiva una presa di contatto con l’acquisizione di strumenti culturali e critici, prima del tutto preclusi alle classi subalterne; se la sanità tendeva solo a restaurare la forza lavoro danneggiata, da un altro angolo di osservazione garantiva la cura di malattie che prima falcidiavano gli appartenenti al proletariato; se i trattamenti pensionistici sovente tendevano a scaricare sulla società i costi di una manodopera in esubero o obsoleta, in un diversa prospettiva fornivano un’alternativa al ricovero nei gerontocomi e il totale degrado della vecchiaia di cui erano vittime i lavoratori subordinati; se il sistema dei trasporti pubblici permetteva la marginalizzazione in alienanti periferie della manodopera inurbata massicciamente, considerandoli in altro modo garantiva anche una migliore fruizione del tempo libero a fette di popolazione un tempo escluse.

È un ragionamento di corto respiro quello che, rifiutando di entrare nel merito complesso del reale colle sue mille sfaccettature, procede per paralogismi basati su apparentamenti puramente nominali. Così se lo Stato è il nemico, tutto ciò che da esso proviene deve essere rifiutato, senza tener conto dell’altro nemico, il capitalismo, che oggi punta per l’appunto alla distruzione dello Stato. Ma ve n’è un altro più insidioso ma non meno erroneo. Poiché proletariato e capitale sono antagonisti negli interessi, tutto ciò che va a vantaggio del secondo non può essere che uno svantaggio per il primo. Se così fosse, visto che è innegabile che il salario è quanto di meno il padronato deve cedere per ottenere il pieno sfruttamento della forza-lavoro ed è per ciò stesso un vantaggio per i datori di lavoro, dovrebbe essere rifiutato dai dipendenti. In effetti, così come si lotta (o meglio sarebbe auspicabile che si lottasse) per migliorare la quota dei beni a favore delle retribuzioni e a sfavore di quella del profitto, analogamente bisognerebbe impegnarsi a volgere i servizi sempre più nel senso utile alle classi sfruttate e sempre meno a favore delle classi abbienti. Senza che ciò significhi, ovviamente, che si possa rinunciare al sovvertimento rivoluzionario per raggiungere una società giusta, libera ed egualitaria.

Dallo stato primitivo allo Stato moderno

Dalle riassuntive notazioni precedenti discende che nell’ultimo secolo e mezzo (e come poteva essere diversamente?) lo Stato ha cambiato in modo sostanziale il proprio ruolo, il proprio funzionamento, la propria struttura. Se da una lato il marxismo, separando il ruolo del governo (comitato d’affari della borghesia, secondo il ben noto aforisma di Marx) da quello dello Stato come apparato ha finito per ipotizzare l’utilizzo per i fini rivoluzionari della macchina statale, sottoposta a nuova dirigenza, parte dell’anarchismo, identificando le due funzioni, ha finto col perdere nel tempo la capacità di distinzione e, di conseguenza, quella di orientamento politico.

Occorre quindi rimeditare sull’intera materia, se si vuol sfuggire alla morsa dell’accettazione dell’apparato statale così com’è o della negazione aprioristica di qualsiasi cosa da esso provenga, che ci porterebbe pari pari nelle braccia del più aggressivo neoliberismo.

 

Ambiguità del ruolo dello Stato

Se si fa astrazione dallo Stato assolutistico o teocratico, pura espressione del potere di una casta privilegiata (contro il quale si è esercitata la critica di Bakunin, come abbiamo visto), ancora vigente in moti paesi a metà dell’Ottocento, ma come fenomeno residuale, la nostra attenzione si deve concentrare sullo Stato liberale, ormai saldamente impiantato in tutto il mondo ad alto sviluppo capitalistico (e che esso rappresenti un male minore ben lo sanno i paesi terzi ancora oppressi da feroci dittature).

I diritti borghesi sono, è vero, finzioni, lo Stato non è mai imparziale; nella società divisa in classi i ceti diversi vivono e praticano persino l’illegalità con conseguenze di vita e di pena del tutto differenti. Eppure il ben noto aforisma sull’acqua sporca e sul bambino occorre tenerlo in considerazione anche quando l’acqua è moltissima ed il bambino davvero piccolo; e ciò per due buoni motivi. Il primo è che sarebbe, comunque, stupido sacrificare il bambino; ed il secondo è che aiuteremmo il nemico di classe che punta proprio a conservare l’acqua sporca eliminando il bambino, che sarebbe per l’appunto il primo a scomparire.

Lo Stato nella rivoluzione

Il punto su cui gli anarchici hanno sempre contrastato i marxisti è stato quello della necessità o meno della sopravvivenza dello Stato nel periodo di transizione: accentramento delle funzioni per propagare e difendere i risultati rivoluzionari per i seguaci del cosiddetto socialismo scientifico; decentramento e assunzione in prima persona da parte del proletariato della gestione sociale per far sì che esso assuma subito l’evento rivoluzionario come soluzione dei problemi generati dalla società divisa in classi, per i comunisti anarchici.

I marxisti hanno tacciato di corporativismo la posizione degli anarchici, sostenendo che seguendo il loro metodo si sarebbero creati conflitti e disuguaglianze e che nessuno sarebbe stato in grado di contrastare efficacemente l’inevitabile reazione della borghesia. Gli anarchici, di contro, hanno sostenuto che la sopravvivenza di un potere centralizzato (Stato) avrebbe rigenerato una classe espropriatrice e allontanato le masse dalla rivoluzione. L’esperienza ha dato inequivocabilmente ragione ai secondi, anche perché mirabili esempi di solidarietà tra diseredati si sono verificati sempre laddove l’autogestione rivoluzionaria del proletariato ha avuto alcuni timidi spazi di espressione libera.

Detto quanto sopra doverosamente, scendiamo nel merito. Prima di tutto nella loro giusta critica alcuni anarchici hanno imboccato una china che potrebbe rivelarsi pericolosa se non adeguatamente indagata: la solidarietà è un progetto di civiltà cui l’uomo va educato e non è un caso che gli esempi succitati si sono tutti verificati laddove i militanti rivoluzionari più a lungo e con maggiore efficacia avevano esercitato la propria influenza e quindi laddove le masse più preparate erano alla rivoluzione. In altri termini sarebbe pernicioso confondere l’anarchia che è la condizione finale dell’evoluzione dell’uomo (frutto di una crescita di civiltà, di consapevolezza del proprio ruolo sociale e di sensibilità), con la condotta primordiale dell’animale uomo, violenta, rozza e aggressiva (ferina).

In secondo luogo è necessario evitare scivolamenti di contenuto: non deve essere accentrata l'amministrazione della cosa pubblica. Devono invece mantenere un ruolo accentrato (sulla base di un libero accordo dal basso verso l’alto, ovviamente) i servizi sociali, per garantire a tutti, indipendentemente dall’occasionalità della propria collocazione geografica, gli stessi diritti.

Gli anarchici spagnoli nel 1936 non ebbero dubbi, e sapendo che la rivoluzione marcia solo se dal primo giorno (nei limiti del possibile) tutto funziona, dall’approvvigionamento ai servizi, organizzarono i lavoratori dei servizi pubblici (per esempio i trasporti di Barcellona), perché li rendessero usufruibili. Ne discende che se è giusto che l’apparto statale borghese si abbatte e non si cambia (come si diceva un tempo), ciò non deve coinvolgere l’erogazione dei servizi sociali: apprendimento dei fanciulli, tutela degli anziani, cura dei malati, trasporto dei cittadini, etc. Pare anche ovvio dedurne che laddove tali servizi già funzionano su standard validi per tutti e vengono erogati al cittadino in quanto tale, la transizione dei lavoratori del settore verso una gestione collettivizzata e uniforme è più facile e efficace che dove gli stessi servizi siano sminuzzati in mani private e sottoposti alla logica del profitto.

Il primo nemico

I marxisti hanno sempre sostenuto che tutta l’evoluzione storica è determinata dalla struttura (assetto della produzione, con i connessi rapporti sociali), mentre gli altri aspetti (politica, cultura, guerra, ecc.) non ne sono che conseguenze più o meno dirette, ma comunque necessariamente determinati (sovrastruttura).

Gli anarchici, al contrario, hanno pensato che sì, la struttura era la fonte primaria dell’assetto sociale (la storia è storia della lotta di classe), ma che la sovrastruttura non ne fosse poi così strettamente dipendente, possedesse cioè dei propri margini di vitalità e che potesse persino a sua volta interagire, contribuendo a determinarla, con la struttura stessa. [Stranamente, sia detto per inciso, i marxisti hanno sviluppato un interesse parossistico per la mediazione politica ed elettorale (le forme incielate dell’economia, come le ha definite Marx), mentre gli anarchici hanno coltivato per esse un disinteresse fanatico.]

Venendo allo Stato, i marxisti ne hanno tratto la conseguenza che, una volta mutati i rapporti di produzione (gli assetti proprietari) con la rivoluzione, la sovrastruttura statale ne dovesse seguire i dettati fino a scomparire per consunzione di funzione (i troschisti, proprio partendo da questo assioma, hanno parlato per l’URSS di Stato proletario degenerato, non ammettendo il ribaltamento completo dei fini rivoluzionari da parte del nuovo apparato burocratico sovietico). Gli anarchici, convinti che il potere, potesse rigenerare a propria volta lo sfruttamento, inizialmente abolito (cosa evidentemente poi verificatasi), hanno sostenuto l’abolizione immediata dell’apparato statale, sostituito da forme alternative di associazionismo cooperativo.

Ancora una volta il principio era buono, ma nel corso del tempo e della cattiva propaganda esso si è corrotto sino a divenire pericoloso, anzi pericolosissimo. Dimenticandosi che il nemico principale è lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo (come ben sapeva Bakunin) e che lo Stato era una delle forme storiche della sua manifestazione, né unica né necessaria, hanno confuso la teoria della fase di transizione con la teoria della storia e hanno proclamato lo Stato come primo nemico del proletariato (quando addirittura non l’unico). Hanno contrapposto alla statolatria marxista, una non meno ottusa statofobia. Detto in altri termini, hanno accentrato la propria critica sullo strumento di dominazione del capitale storicamente determinato in una ben precisa fase, trascurando la dominazione stessa e le sue altri possibili forme di esistenza, solo per la paura che nella fase rivoluzionaria, lo Stato sopravvivendo, riproducesse lo sfruttamento.

È per questo che in tanti scritti anarchici si sostiene che lo Stato è il primo nemico e si taccia di criptomarxismo chi sostiene che invece il primo nemico è la classe borghese; peccato che ormai il padronato punti esso stesso alla dissoluzione dello Stato, così come è stato conosciuto nel '900, ed in alcune frange estreme di neoliberismo statunitense (Friedman jr.) si pensi di privatizzare persino le forze di polizia, tornando così ai bravi di manzoniana memoria, o a tutte quelle forme di polizia privata (e/o manodopera criminale) utilizzata per la repressione in varie forme e varie fasi da quasi tutti gli Stati del mondo.

Sia ricordato per inciso: le mafie in tutto il mondo nascono o resistono proprio quale forma di controllo sociale e poliziesco, laddove - non aboliti i rapporti di produzione di sfruttamento - le forme statuali, non riuscendo a garantire neanche con la forza alla borghesia il pieno controllo del territorio, si trovano costrette a condividerlo con i poteri forti mafiosi, assorbendoli o facendosene permeare a tutti i livelli istituzionali.

Funzioni collettive e funzioni coercitive

Giungendo a conclusione, un approccio generico e per pura analogia nominale non ci fa fare un passo in avanti (ma molti indietro). Occorre, quindi, distinguere tra diverse funzioni che lo Stato moderno esplica (o meglio esplicava prima del recente attacco neoliberista): funzioni di mantenimento dell’ordine sociale esistente sia all’interno di una singola area sia internazionalmente (il Warfare, come è stato definito), dalla funzioni di erogazione di uno standard minimo di sicurezza dei cittadini (il Welfare, appunto). Spesso le funzioni si intersecano e supportano l’una l’altra, ma ciò non toglie che rispondano a principi differenti: le prime sono puramente coercitive e non hanno alcuna ragion d’essere in una società egualitaria, le secondo puntano ad un'integrazione sociale morbida e giocano ruoli che, seppure in forma variata, qualsiasi società che voglia definirsi tale deve coprire.

Le tendenze in atto fanno intravedere una strada ben diversa da quella auspicabile, strada che il capitalismo ha intrapreso con grande lena. L’eliminazione del Welfare ed il mantenimento anzi il potenziamento del Warfare. I trattati dell’Unione Europea, il rafforzamento della NATO, l’allargamento dell’esercito professionale in Italia ed altri paesi vanno tutti in questa direzione, il che, tra l’altro, esclude una consistente diminuzione della pressione fiscale, almeno a carico del lavoro dipendente.

Si può anzi aggiungere che lo sviluppo del Welfare segna una strada la cui inversione fa solamente il gioco dell’avversario di classe, e che prepara, invece che allontanare l’uomo, quale animale, sociale ad una gestione collettiva e solidale delle relazioni. Sembra, invece, che per taluni sedicenti anarchici il male siano la sanità pubblica, l’istruzione pubblica, la previdenza pubblica, in quanto erogati da organi statali, e non lo sfruttamento della malattia, del sapere, della vecchiaia ai fini del profitto.

E non dimentichiamo che se lo Stato è un ostacolo ad ogni realizzazione rivoluzionaria e che esso deve scomparire sin dal primo momento di un eventuale ribaltamento dei rapporti di forza tra borghesia e proletariato, pure la sua comparsa storica rappresenta un progresso rispetto all’arbitrio barbarico che lo precedeva, e che la sua scomparsa, senza un ribaltamento dei rapporti proprietari vigenti allontana e non avvicina alla meta.

 

A proposito di regole

L’antistatalismo anarchico ha senza alcun dubbio il pregio di aver posto storicamente l’attenzione ad aspetti che il marxismo ha decisamente trascurato: il ruolo del potere politico, il ruolo delle istituzioni durante e successivamente l’evento rivoluzionario, il ruolo dei ceti intellettuali, la logica interna all’amministrazione e la sua capacità di autoriprodursi, l’autonomia evolutiva della sovrastruttura in determinate condizioni e la sua influenza sull’evoluzione generale. In tutti questi campi le acquisizioni sono teoricamente irreversibili e comprovate dall’esperienza dei vari tentativi di costruzione del socialismo attorno ai parametri delle più svariate forme di marxismo.

Occorre però pulire l’antistalismo dai detriti che esso si trascinato dietro per l’accumularsi di interpretazioni troppo spesso superficiali e basate su semplici assonanze nominali. In particolare la perniciosa confusione tra statale e pubblico, tra burocrazia e servizi, tra verticistico e collettivo. È ben vero che i servizi pubblici sono affetti da burocratizzazione e scarsa (è un eufemismo!) permeabilità alle esigenze dei singoli che ne dovrebbero usufruire. Ma è altrettanto vero che la polemica che su queste inefficienze i media del potere giornalmente imbandiscono sulle tavole dei teleutenti col cervello all’ammasso serve solo a spianare la strada al profitto privato. La strada che porta dagli attuali criticabilissimi servizi pubblici alla società egualitaria e senza classi non attraversa il territorio impervio del capitalismo più selvaggio e del presunto interesse del singolo cittadino; la via è un’altra e corre nella direzione opposta:

  • il loro riconoscimento come salario perequativo indiretto;
  • la rivendicazione di servizi più estesi, più efficienti e gratuiti per tutti;
  • un controllo sempre più efficiente della collettività, non intesa sotto la forma delle sue rappresentanze politiche, sulla qualità della loro erogazione.

È questo il modo per preparare la strada alla futura effettiva autogestione della società e dei servizi che colmino le disuguaglianze che la natura crea tra gli esseri umani, che poi è il vero e più profondo significato di servizio pubblico.

 

Per la liquidazione dello Stato

Prima di affrontare il problema del Periodo di Transizione, è necessario per l'organizzazione politica dei comunisti anarchici fare brevemente chiarezza, non solo terminologica, ma strategica di fondo appunto, sulle varie concezioni prefiguranti la fine dello Stato borghese, in seguito alla rottura politico-istituzionale provocata da una rivoluzione vittoriosa del proletariato.

Superiamo le concezioni di "abolizione dello Stato" o di "distruzione dello Stato" in quanto prefigurano due aspetti relativi alla fine dello Stato, che sono incentrati sull'azione violenta di un gruppo di professionisti politici e sull'istantaneità o rapidità di questa azione.

All'opposto di queste due concezioni, ne troviamo altre due che parimenti respingiamo. Si tratta della concezione del "deperimento dello Stato" o della "estinzione dello Stato". Le superiamo entrambe in quanto prefigurano due aspetti relativi alla fine dello Stato, di cui il primo fa riferimento ad un processo del tutto oggettivo, meccanico, che porterebbe alla scomparsa dello Stato, ed il secondo ad una sorta di gradualità di questo processo.

Se nei primi due casi non riteniamo abbia senso l'azione minoritaria violenta di un gruppo politico contro lo Stato se non sussiste la reale auto-organizzazione del proletariato, al tempo stesso negli altri due casi riteniamo impossibile un processo spontaneo ed automatico di estinzione dello Stato, senza l'azione rivoluzionaria della classe subalterna che operi verso questo fine.

La scelta strategica di fondo dei comunisti anarchici va verso la concezione della "liquidazione dello Stato", in quanto azione politica ed economica di organizzazione dell'autonomia proletaria tendente a rendere impossibile ogni ricostruzione dello Stato ed a togliergli quindi ogni base a livello sociale.

La liquidazione dello Stato è dunque l'atto finale di un processo che nasce e si sviluppa già dentro ed in contrapposizione assoluta alla società divisa in classi e che segna la rottura definitiva e totale tra il sistema classista ed autoritario e la nuova società comunista anarchica.

La liquidazione dello Stato si identifica pertanto con la distruzione delle strutture di sfruttamento e gli apparati di dominio, con il passaggio dalla società divisa in classi a quella comunista anarchica, realizza lo scopo rivoluzionario dell'affossamento delle istituzioni giuridiche, militari e amministrative dei rapporti sociali di classe per consentire l'attuazione dei metodi di Produzione, distribuzione e regolazione sociale comunisti sotto il controllo e l'autogoverno delle strutture proletarie autogestite in modo federato e libertario.

(Documento approvato in via definitiva dal 69° Consiglio dei Delegati della FdCA del 22 giugno 2008)